Gli uomini fuggono, il paese è delle donne
di Elisa Bianchi
Italia
Caritas -
aprile 2015
Difficile
non accorgersi della mancanza degli uomini. Passeggiando per le strade di Asmara
o delle altre principali città, viaggiando in macchina lungo le principali vie
di comunicazione, è quasi impossibile incontrare maschi in età adulta. Donne,
bambini, anziani, sono le categorie di persone che è possibile incontrare.
Anziani che siedono in compagnia, bambini che corrono e portano a spasso le
capre, donne che trasportano acqua. E badano ai bambini, lavorano la terra,
vendono i pochi frutti dei campi o del proprio lavoro manuale…
Istantanee
da un giorno qualunque in Eritrea. Viene immediatamente da chiedersi dove siano
gli uomini. Al lavoro in qualche fabbrica? Impossibile. Quasi tutte le fabbriche
sono state chiuse dal governo negli ultimi dieci anni, e quelle attive si
possono contare sulle dita di una mano.
Al
lavoro in agricoltura? Impossibile: i piccoli campi coltivati riescono a mala
pena a sostenere un’alimentazione familiare di sussistenza. La produzione
agricola, inoltre, è possibile esclusivamente durante la stagione delle piogge,
che si è drasticamente ridotta negli anni, arrivando a durare solo due mesi,
caratterizzati da scarsissime precipitazioni.
Impegnati
negli uffici delle rappresentanze di qualche organismo internazionale (Onu,
Unione europea) o di organizzazioni non governative nazionali o internazionali?
Impossibile. Tali rappresentanze sono state tutte chiuse e i rapporti
diplomatici con gli altri paesi drasticamente ridotti o interrotti.
Impegnati
nello studio o nell’insegnamento in qualche università? Impossibile: i
principali centri di formazione sono stati chiusi. Impegnati come insegnanti
nelle scuole elementari o medie? Impossibile, la maggior parte delle scuole
dell’obbligo, spesso a metà anno, deve interrompere l’insegnamento a causa
della mancanza di docenti.
Non
pace e non guerra
Molti
uomini, in realtà, risiedono in Eritrea, eppure non possono rendersi utili
nella gestione della quotidianità familiare. Essi infatti sono impegnati nel
servizio militare nazionale, che per legge inizia al compimento dei 18 anni, e
finisce, nella migliore delle ipotesi, a 50 anni (in un paese dove
l’aspettativa di vita media è di 63 anni). Durante il servizio militare gli
uomini ricevono un addestramento di base, che li impegna poche ore al giorno,
lasciandoli poi in balia della noia e della solitudine.
La
lunghezza del servizio militare e l’impegno degli uomini nel settore bellico
sono giustificati, dal governo, con la situazione di non pace e non guerra che
sussiste al confine con l’Etiopia. Dopo l’indipendenza dell’Eritrea
dall’Etiopia, sancita nel 1991, le relazioni tra i due paesi del Corno
d’Africa sono rimaste tese, e nel 1998 si è riacceso il conflitto, terminato
con una risoluzione internazionale nel 2002, che ha fissato una linea di
confine, non riconosciuta dal governo etiope. La zona di confine tra i due stati
rimane tuttora militarizzata e caratterizzata da grande tensione.
Trattamenti
disumani
La
maggior parte degli uomini eritrei, però, non si dedica all’addestramento
militare. Perché, semplicemente, non risiede nel paese. Su una popolazione
nazionale di circa 6 milioni di abitanti, è stimato che circa 2 milioni si
trovino all’estero. Essi infatti rappresentano una componente molto ampia
della popolazione che, dall’Africa, cerca di attraversare il mar Mediterraneo
su imbarcazioni di fortuna per arrivare sulle coste italiane e da lì proseguire
per altri paesi d’Europa. Altri ancora cercano di attraversano il deserto e il
Sinai per arrivare in Medio Oriente e trovare lavoro come manovali, o in altri
settori di base. In entrambi i casi, il viaggio che affrontano è una potenziale
condanna a morte, che in qualsiasi momento può essere sentenziata da fame,
sete, bestie feroci, trafficanti e predoni. I più fortunati riescono ad
arrivare in Sud Sudan, dove altri connazionali hanno trovato lavoro negli hotel
e nelle strutture ricettive. Lo stesso Sud Sudan però è segnato da un
conflitto che non sembra spegnersi, e lascia i migranti in un perenne stato di
pericolo.
Dopo
la partenza dei migranti, le famiglie perdono completamente i contatti e le
notizie dei loro mariti, figli, fratelli e amici. Durante il viaggio è quasi
impossibile comunicare, a volte addirittura pericoloso per chi è rimasto in
patria. Molte famiglie vengono contattate, in realtà, dai trafficanti di esseri
umani, che chiedono somme altissime, fino a 15 mila euro, per il riscatto dei
loro cari presi in ostaggio, pena la tortura, la morte e il traffico di organi
interni. I migranti eritrei, infatti, offrono un flusso continuo di materiale
umano ai predoni che gestiscono (nel deserto, in Sudan, in Egitto e nel Sinai)
un traffico da milioni di euro. I migranti vengono infatti rapiti e portati in
prigioni nascoste, dove vengono sottoposti a trattamenti disumani, fino a quando
il riscatto viene pagato. Peraltro solo i più fortunati, le cui famiglie
riescono a racimolare il denaro necessario, vengono liberati; gli altri
spariscono nel nulla.
Si
parte anche da ragazzini
La
maggior parte dei migranti eritrei sono giovani, attorno ai 17-18 anni. Cercano
di scappare da un servizio militare che dura all’infinito, o da una
prospettiva di vita segnata dalla mancanza di istruzione, dall’impossibilità
di carriera nel settore produttivo, o di realizzare le proprie aspirazioni
personali. Spesso il progetto migratorio viene elaborato fin da bambini.
Infatti, ad Asmara e dintorni non è raro incontrare giovani ragazzi di 11 o 12
anni che, insieme ai loro amichetti, si preparano alla partenza verso
l’estero. Spesso questi viaggi vengono affrontati a piedi, senza alcun tipo di
protezione, completamente allo sbando, affidandosi solo alla fortuna.
Estremamente vulnerabili a qualsiasi tipo di attacco, sia umano che ambientale.
Un
recente rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim),
intitolato Fatal Journeys: Tracking lives lost during migration, riporta che nel
2014 oltre 3 mila migranti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il
Mediterraneo e arrivare in Europa. Il gruppo più numeroso era rappresentato
dagli eritrei, seguiti dai siriani. Dopo l’uscita del report, alcune
organizzazioni della società civile africana si sono attivate e hanno fatto
appello ai governi africani e all’Unione africana, perché intraprendano
strade diplomatiche e umanitarie per fronteggiare questa nuova emergenza
umanitaria. Mobile, non localizzata in un territorio regionale o nazionale. Ma
non per questo meno capace di falciare vite e speranze di sviluppo.
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