martedì 28 aprile 2015

Eritrea: Gli uomini fuggono.

 


Gli uomini fuggono, il paese è delle donne di Elisa Bianchi
Italia Caritas - aprile 2015  
 
Difficile non accorgersi della mancanza degli uomini. Passeggiando per le strade di Asmara o delle altre principali città, viaggiando in macchina lungo le principali vie di comunicazione, è quasi impossibile incontrare maschi in età adulta. Donne, bambini, anziani, sono le categorie di persone che è possibile incontrare. Anziani che siedono in compagnia, bambini che corrono e portano a spasso le capre, donne che trasportano acqua. E badano ai bambini, lavorano la terra, vendono i pochi frutti dei campi o del proprio lavoro manuale…
Istantanee da un giorno qualunque in Eritrea. Viene immediatamente da chiedersi dove siano gli uomini. Al lavoro in qualche fabbrica? Impossibile. Quasi tutte le fabbriche sono state chiuse dal governo negli ultimi dieci anni, e quelle attive si possono contare sulle dita di una mano.
Al lavoro in agricoltura? Impossibile: i piccoli campi coltivati riescono a mala pena a sostenere un’alimentazione familiare di sussistenza. La produzione agricola, inoltre, è possibile esclusivamente durante la stagione delle piogge, che si è drasticamente ridotta negli anni, arrivando a durare solo due mesi, caratterizzati da scarsissime precipitazioni.
Impegnati negli uffici delle rappresentanze di qualche organismo internazionale (Onu, Unione europea) o di organizzazioni non governative nazionali o internazionali? Impossibile. Tali rappresentanze sono state tutte chiuse e i rapporti diplomatici con gli altri paesi drasticamente ridotti o interrotti.
Impegnati nello studio o nell’insegnamento in qualche università? Impossibile: i principali centri di formazione sono stati chiusi. Impegnati come insegnanti nelle scuole elementari o medie? Impossibile, la maggior parte delle scuole dell’obbligo, spesso a metà anno, deve interrompere l’insegnamento a causa della mancanza di docenti.  
 
Non pace e non guerra
Molti uomini, in realtà, risiedono in Eritrea, eppure non possono rendersi utili nella gestione della quotidianità familiare. Essi infatti sono impegnati nel servizio militare nazionale, che per legge inizia al compimento dei 18 anni, e finisce, nella migliore delle ipotesi, a 50 anni (in un paese dove l’aspettativa di vita media è di 63 anni). Durante il servizio militare gli uomini ricevono un addestramento di base, che li impegna poche ore al giorno, lasciandoli poi in balia della noia e della solitudine.
La lunghezza del servizio militare e l’impegno degli uomini nel settore bellico sono giustificati, dal governo, con la situazione di non pace e non guerra che sussiste al confine con l’Etiopia. Dopo l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia, sancita nel 1991, le relazioni tra i due paesi del Corno d’Africa sono rimaste tese, e nel 1998 si è riacceso il conflitto, terminato con una risoluzione internazionale nel 2002, che ha fissato una linea di confine, non riconosciuta dal governo etiope. La zona di confine tra i due stati rimane tuttora militarizzata e caratterizzata da grande tensione.  
 
Trattamenti disumani
La maggior parte degli uomini eritrei, però, non si dedica all’addestramento militare. Perché, semplicemente, non risiede nel paese. Su una popolazione nazionale di circa 6 milioni di abitanti, è stimato che circa 2 milioni si trovino all’estero. Essi infatti rappresentano una componente molto ampia della popolazione che, dall’Africa, cerca di attraversare il mar Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna per arrivare sulle coste italiane e da lì proseguire per altri paesi d’Europa. Altri ancora cercano di attraversano il deserto e il Sinai per arrivare in Medio Oriente e trovare lavoro come manovali, o in altri settori di base. In entrambi i casi, il viaggio che affrontano è una potenziale condanna a morte, che in qualsiasi momento può essere sentenziata da fame, sete, bestie feroci, trafficanti e predoni. I più fortunati riescono ad arrivare in Sud Sudan, dove altri connazionali hanno trovato lavoro negli hotel e nelle strutture ricettive. Lo stesso Sud Sudan però è segnato da un conflitto che non sembra spegnersi, e lascia i migranti in un perenne stato di pericolo.
Dopo la partenza dei migranti, le famiglie perdono completamente i contatti e le notizie dei loro mariti, figli, fratelli e amici. Durante il viaggio è quasi impossibile comunicare, a volte addirittura pericoloso per chi è rimasto in patria. Molte famiglie vengono contattate, in realtà, dai trafficanti di esseri umani, che chiedono somme altissime, fino a 15 mila euro, per il riscatto dei loro cari presi in ostaggio, pena la tortura, la morte e il traffico di organi interni. I migranti eritrei, infatti, offrono un flusso continuo di materiale umano ai predoni che gestiscono (nel deserto, in Sudan, in Egitto e nel Sinai) un traffico da milioni di euro. I migranti vengono infatti rapiti e portati in prigioni nascoste, dove vengono sottoposti a trattamenti disumani, fino a quando il riscatto viene pagato. Peraltro solo i più fortunati, le cui famiglie riescono a racimolare il denaro necessario, vengono liberati; gli altri spariscono nel nulla.

Si parte anche da ragazzini
La maggior parte dei migranti eritrei sono giovani, attorno ai 17-18 anni. Cercano di scappare da un servizio militare che dura all’infinito, o da una prospettiva di vita segnata dalla mancanza di istruzione, dall’impossibilità di carriera nel settore produttivo, o di realizzare le proprie aspirazioni personali. Spesso il progetto migratorio viene elaborato fin da bambini. Infatti, ad Asmara e dintorni non è raro incontrare giovani ragazzi di 11 o 12 anni che, insieme ai loro amichetti, si preparano alla partenza verso l’estero. Spesso questi viaggi vengono affrontati a piedi, senza alcun tipo di protezione, completamente allo sbando, affidandosi solo alla fortuna. Estremamente vulnerabili a qualsiasi tipo di attacco, sia umano che ambientale.
Un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), intitolato Fatal Journeys: Tracking lives lost during migration, riporta che nel 2014 oltre 3 mila migranti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo e arrivare in Europa. Il gruppo più numeroso era rappresentato dagli eritrei, seguiti dai siriani. Dopo l’uscita del report, alcune organizzazioni della società civile africana si sono attivate e hanno fatto appello ai governi africani e all’Unione africana, perché intraprendano strade diplomatiche e umanitarie per fronteggiare questa nuova emergenza umanitaria. Mobile, non localizzata in un territorio regionale o nazionale. Ma non per questo meno capace di falciare vite e speranze di sviluppo.                                      

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